Manfredo TAFURI | La crisi come progetto



Felice Mometti
La crisi come progetto
Architettura e storia in Manfredo Tafuri

Nella storia non esistono “soluzioni”. Ma si può sempre diagnosticare che l’unica via possibile è l’esasperazione delle antitesi, lo scontro frontale delle posizioni, l’accentuazione delle contraddizioni. E questo non per un particolare sado-masochismo, ma nell’ipotesi di un mutamento radicale che ci faccia ritenere superati, insieme all’angosciosa situazione presente, anche i compiti provvisori che abbiamo tentato di chiarire a noi stessi.

1. Riconoscimento e oblio

Stano destino quello di Manfredo Tafuri. Considerato, quando era in vita, tra i più importanti storici dell’architettura della seconda metà del secolo scorso, mentre ora – a diciotto anni dalla morte – una coltre di silenzio avvolge la sua produzione ed elaborazione intellettuale. La sua figura suscita una sorta di imbarazzo. Un imbarazzo fatto di riconoscimenti formali e ben più sostanziali inviti all’oblio, alla sospensione del ricordo della sua attività didattica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e delle sue riflessioni teoriche sul rapporto tra architettura e modo di produzione capitalistico. Sicuramente questo è accaduto in Italia, con l’eccezione di un interessante studio su Tafuri e l’architettura contemporanea[2], un po’ meno nei paesi anglosassoni. Il recente lavoro di Leach[3] ma soprattutto il saggio di Day[4], che ricostruisce i rapporti tra Tafuri e l’operaismo italiano rispondendo anche alle critiche affrettate di Jameson [5], testimoniano un interesse maggiore.

Di solito si è riconosciuti post-mortem, a Tafuri è successo il contrario. C’è, tuttavia, una relazione tra il riconoscimento formale e l’oblio: il primo è l’anticamera del secondo.
Tafuri arriva come docente all’Università di Venezia nel 1968 con la convinzione del carattere estremamente composito dell’architettura degli ultimi due secoli e quindi della necessità di ripensare una metodologia di analisi storica. Un progetto di ricerca che sviluppa negli anni, successivi concentrandosi sul rapporto tra avanguardie artistiche e metropoli, lavoro intellettuale e ciclo capitalistico, architettura e ideologia. Non è un percorso lineare, ci sono contraddizioni, sentieri che si interrompono, ritorni al punto di partenza. C’è però la consapevolezza che il nodo teorico e analitico di fondo consiste nella domanda che Benjamin ha posto riguardo alla poesia e che è necessario porre anche rispetto all’architettura. Non bisogna chiedere quale posizione occupi un’opera rispetto ai rapporti di produzione dell’epoca, se essa sia in sintonia con essi, se sia reazionaria, o se miri al loro rovesciamento, se sia rivoluzionaria. Prima di chiedere che posizione occupa l’architettura rispetto ai rapporti di produzione, ci si dovrebbe chiedere qual è la sua posizione in essi.[6]

Tra i rapporti di produzione capitalistici e l’architettura non c’è quell’influenza diretta che una struttura esercita sulla sovrastruttura, come molti marxismi hanno attribuito a Marx, e nemmeno si può identificare l’architettura e la città come una forza produttiva che entra in contraddizione con i rapporti di produzione.[7] È dentro la continua riproduzione impersonale dei rapporti capitalistici che prendono forma le teorie, le tecniche e le pratiche dell’agire architettonico. Ma Tafuri non si ferma qui. Sostiene infatti che come non può esistere un’economia politica di classe, ma solo una critica dell’economia politica, così non può fondarsi un’estetica, un’arte, un’architettura di classe, ma solo una critica di classe dell’estetica, dell’arte, dell’architettura, della città.[8] Questo è l’orizzonte tafuriano quando si confronta con le avanguardie artistiche dei primi del Novecento, con l’ideologia e la prassi della pianificazione in Unione Sovietica, con la gestione socialdemocratica delle città austriache e tedesche, con l’architettura e l’urbanistica americana, con la storia dell’architettura italiana dal 1944 al 1985. Un approccio che non abbandona, pur mantenendolo sotto traccia, anche quando si dedica agli studi sul Rinascimento. Anzi è proprio lui a cercare di mettere in tensione continua il proprio progetto di ricerca.[9]

Non è facile attraversare il campo teorico individuato da Tafuri, si rischia di mettere il piede su qualche mina. Si possono indicare come esempi paradigmatici i diversi atteggiamenti assunti da due architetti da sempre molto attenti al rapporto tra architettura e contesto. Il riconoscimento formale di Vittorio Gregotti [10] e l’invito all’oblio di Ignasi De Solà-Morales. Secondo Gregotti sono gli studi di Tafuri sull’architettura del Cinquecento che ci possono illuminare sull’epoca contemporanea e i suoi processi. In modo particolare è il concetto di “compimento”, avanzato da Tafuri nella Ricerca per il Rinascimento,[11] e non quello di “superamento” del Moderno a doverci guidare. Nella sua battaglia contro l’architettura postmoderna Gregotti assegna a Tafuri un ruolo centrale, valorizzando, ma anche forzando, le idee contenute nello studio sul Rinascimento. Per Gregotti bisogna portare a “compimento” il Movimento Moderno[12], non così per Tafuri che parla di “compimento” come di uno spostamento illusorio dell’agonia che deriva dall’impossibilita di introiettare le cause dell’angoscia dell’etica borghese nei confronti di un’architettura sempre più autoreferenziale.[13]

Se Gregotti usa in modo arbitrario “l’ultimo Tafuri” contro tutta l’elaborazione precedente, Da Solà-Morales[14] procede in modo più diretto contro una supposta “convinzione leninista” di Tafuri che non aiuta a separare la realtà dall’astrazione, l’ideologia dalla scienza, la pratica architettonica dalla teoria spingendo l’avanguardia del proletariato al confronto con i suoi nemici di classe. Non c’è in Tafuri alcun progetto storico, ci sono solo pregiudizi che dipendono dalle sue fonti teoriche e dalle correnti di pensiero dominati. Non si dice esplicitamente, ma la conclusione è: “dimenticate Tafuri !”

Sorge il sospetto, in entrambi i casi, che il vero problema sia il carattere “radicale”, nel senso marxiano del termine di andare alla radice delle cose, della critica “dell’ideologia architettonica” che ha impegnato Tafuri quanto meno dal 1968 fino alla sua scomparsa.


2. Il ’68 e la rivista Contropiano

Nel marzo del ’67 la rivista Classe Operaia, Mensile politico degli operai in lotta cessa le pubblicazioni. Era nata tre anni prima per iniziativa soprattutto di Tronti, Negri e Asor Rosa che ruppero con i Quaderni Rossi di Raniero Panzieri. Nell’editoriale del primo numero, Lenin in Inghilterra (gennaio 1964), Tronti enuncia quelle che saranno successivamente le coordinate teoriche di gran parte dell’operaismo italiano. L’idea di Tronti è quella di impostare diversamente il rapporto tra capitale e lavoro. È un errore, sostiene, vedere prima lo sviluppo capitalistico e poi le lotte operaie, occorre rovesciare il problema e ripartire dal principio, e il principio è la lotta di classe operaia.

La crisi e la chiusura di Classe Operaia avviene per una profonda divergenza che riguarda la traduzione politica di questo rovesciamento di prospettiva che vede lo sviluppo capitalistico principalmente come una risposta alle lotte operaie.[15] Tronti pensa all’uso operaio del Partito, nel caso specifico del Partito Comunista Italiano, al quale si era iscritto nel 1951 senza mai uscirne fino allo scioglimento. Negri guarda alle lotte che stanno assumendo una dimensione strategica tale da permetterne un’espansione materiale e un arricchimento qualitativo che avrebbero preluso a una nuova forma di organizzazione capace di andare oltre i partiti tradizionali del movimento operaio. In questo contesto, nel gennaio del 1968, nasce la rivista Contropiano, Materiali marxisti. I promotori sono Negri, Asor Rosa e Cacciari, con Tronti che, questa volta, ha un ruolo più defilato. Un progetto politico-editoriale che cerca di combinare l’analisi, definita come “scienza operaia”, delle questioni riguardanti i rapporti di classe sul piano teorico, storico e militante con l’analisi degli aspetti ideali e culturali della società capitalistica di massa, marxianamente definita come critica dell’ideologia.[16] La rivista fin dal primo numero affronta un arco molto vasto di temi, e ciò avviene:

[…] perché noi pensiamo che la risposta del punto di vista operaio debba rivelarsi efficace di fronte a qualunque livello delle istituzioni capitalistiche. Naturalmente è ben chiaro che in questo settore la rivista non può dare indicazioni positive, ma soltanto incentivi al rifiuto e alla negazione. Non intendiamo ricostruire una cultura della classe operaia – operazione in cui non crediamo, e che ci sembrerebbe comunque offensiva, qualora la tentassimo, per la maturità politica e pratica della classe operaia in questione – bensì distruggere sistematicamente e fin dalle più lontane fondamenta (spesso in verità più significative e probanti dei suoi rappresentati attuali) la cultura di classe dell’avversario borghese che ci appare ancora tutt’altro che sconfitta e inefficiente (soprattutto se l’intendiamo, come noi l’intendiamo, in quanto “sistema” di dominio intellettuale e di coercizione ideologica di una classe sull’altra). [17]

L’obiettivo è quello di aprire uno confronto- scontro con i punti alti della cultura borghese, con i suoi fondamenti e le sue capacità di diventare cultura dominante. Da questo punto di vista appare tuttavia evidente la contraddizione in cui si dibatte la redazione della rivista fin dalla nascita. La teoria di Tronti basata sul rovesciamento del rapporto tra capitale e lavoro viene estesa al rapporto tra cultura e classe operaia. Ma nello stesso momento in cui si compie questa operazione ci si rende conto che l’ideologia dominante è, seppur in termini non meccanicisti, l’ideologia della classe dominante e che il rapporto che si intendeva rovesciare agisce invece in profondità come dominio intellettuale. L’analogia tra ristrutturazione capitalista come risposta alle lotte operaie ed efficacia della cultura borghese come risposta alla maturità politica e pratica della classe operaia non regge e genera una contraddizione che non può ignorare la forma del dominio del “sistema culturale borghese”.

L’esplosione delle lotte studentesche nella primavera del ’68 mette a dura prova la coesione interna della redazione di Contropiano. Il primo effetto concreto, tra il primo e il secondo numero, sono le dimissioni di Negri dalla direzione della rivista. Il casus belli, è la pubblicazione del saggio di Tronti dal titolo Il partito come problema, in cui riaffiorano i contrasti che avevano portato alla chiusura di Classe Operaia. Ma non solo. C’è una diversa valutazione del ruolo che il movimento studentesco può svolgere nella trasformazione della società capitalista. Negri considerava l’insieme delle lotte studentesche e operaie come l’apertura di un processo pre-rivoluzionario. Cacciari e Asor Rosa, gli altri due direttori della rivista, sostenevano la tesi che l’accerchiamento delle casematte della linea di difesa capitalistica richiedeva una strategia più articolata e di lungo periodo.

Tronti sottovalutava ampiamente la portata di quella rivolta sociale, letta essenzialmente come un processo di modernizzazione della società italiana, tanto da affermare successivamente, in un’intervista del 2001 :
ho guardato il ’68 alla finestra, proprio perché a noi che venivamo dall’esperienza delle lotte operaie questo sembrava un movimento francamente minore anche se aveva molta più risonanza dell’altro; in realtà già il fatto che lì si parlasse di potere studentesco a noi che avevamo parlato di potere operaio faceva un po’ ridere. Poi non ho mai pensato che dei fatti generazionali potessero provocare sconquassi veri.[18]

Tafuri non partecipa a questo dibattito interno alla rivista. Entra a far parte della redazione solo nel 1969, quando Contropiano è ormai diventato più uno strumento di riflessione critica sull’ideologia del “neocapitalismo” italiano che non uno dei possibili luoghi di orientamento e ripensamento di coloro che partecipano ai “movimenti materiali della lotta di classe”.[19] In poco più di due anni Tafuri pubblica quattro saggi: Per una critica dell’ideologia architettonica,[20] Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico,[21] Socialdemocrazia e città nella Repubblica di Weimar,[22] Austromarxismo e città “Das rote Wien”.[23] Quattro contributi che anticipano gran parte dei temi della sua elaborazione successiva, e che segnano anche la linea editoriale delle rivista. Il primo saggio sulla critica dell’ideologia dell’architettura apre un dibattito che durerà diversi anni all’interno degli ambienti e delle “comunità accademiche” degli storici e dei teorici dell’architettura moderna. Viene posta, già a partire dall’incipit del saggio Per una critica dell’ideologia architettonica, una questione che, partendo dall’arte e dall’architettura, investe direttamente il concetto stesso di modernità :
Allontanare l’angoscia comprendendone e introiettandone le cause: questo sembra essere uno dei principali imperativi etici dell’arte borghese. Poco importa se i conflitti, le contraddizioni, le lacerazioni che generano l’angoscia verranno assorbite in un meccanismo capace di comporre provvisoriamente quei dissidi, o se la catarsi verrà raggiunta attraverso la sublimazione contemplativa.[24]
La modernità capitalista è intesa da Tafuri come crisi permanente, perché il mutamento in quanto tale è uno dei suoi fondamenti. La modernità è una discontinuità priva di una propria unità tranquillizzante, ma al tempo stesso non è riconducibile a una semplice pluralità. È piuttosto una profonda “dissociazione del reale”, lo spezzarsi di quest’ultimo in una molteplicità incoerente e spesso contraddittoria.

L’ultimo numero di Contropiano esce nel 1971, Cacciari e Asor Rosa hanno tratto la logica conseguenza della teoria sull’uso operaio del PCI entrando a farne parte e ricoprendo anche cariche politiche e rappresentative. Tronti non era mai uscito dal PCI e Tafuri si iscrive senza però che questo significhi un impegno militante. Finisce un’esperienza, quella di Contropiano, nata con l’intenzione di durare a lungo. Un’intenzione che non divenne realtà. Le diverse traiettorie politiche dell’operaismo italiano attraversarono anche Contropiano decretandone la chiusura. Tafuri, dal punto di vista politico, non si sentirà particolarmente coinvolto, manterrà e approfondirà comunque un approccio teorico e un metodo analitico le cui basi furono gettate nei due anni di collaborazione alla rivista.

3. Architettura e ideologia

Se il saggio sulla critica dell’ideologia architettonica rappresenta una svolta nell’affrontare i rapporti tra produzione intellettuale e sistema capitalistico, le premesse di questa svolta si trovano in un lavoro pubblicato da Tafuri nel ’68: Teorie e storia dell’architettura.[25] L’ideologia sottesa dalle opere architettoniche, scrive Tafuri, è una visione del mondo che si pone come costruzione dell’ambiente umano. Una ideologia molto “materiale” fatta di organizzazione degli spazi pubblici e privati, di tecniche costruttive, di divisione del lavoro, di metodi di progettazione.

Nell’architettura del Rinascimento, anche tenendo conto dell’ambiguità di questa definizione, “fallisce” il sogno della città laica, della città dell’uomo, per un effetto combinato dovuto ai pesanti richiami al “realismo politico” ad opera della Chiesa di Roma ed all’emergere di una sorta di “nuovo feudalesimo” come reazione alla spinta innovatrice rappresentata dalle idee dell’Umanesimo.[26] La città rinascimentale di Brunelleschi e di Alberti affermava il carattere concreto, socialmente determinato, della vita urbana. Una “città reale” fatta di stratificazioni storiche in cui in nuovi “oggetti” architettonici favorivano la diffusione di un comportamento laico e razionale. L’ideologia di architetti come Brunelleschi e Alberti, o di “amministratori” della Firenze del Quattrocento come Salutati, si esprimeva attraverso l’identità di Natura e Ragione e nella ricerca nell’architettura e nel pensiero della Roma “classica” di una seconda e più perfetta Natura. Essi erano degli intellettuali in senso moderno: intervenivano autonomamente sulla città promuovendo un nuovo modo di vedere e vivere il mondo. La razionalità, l’universalità e la laicità delle rappresentazioni e delle strutture costruite, con l'uso della prospettiva, sono strettamente connesse a questa nuova visione del mondo. Attraverso la prospettiva si riduceva a unità misurabile, secondo un’unica scala, la grande varietà della natura, e siccome la prospettiva si occupa delle relazioni delle cose fra loro, a prescindere dalle loro qualità, ne consegue che con questo nuovo codice visivo si “predisponeva la realtà” a un’interpretazione quantitativa e razionale.

Le riflessioni di Tafuri sull’architettura e gli architetti del Quattrocento sono rivolte alla comprensione degli aspetti originari che hanno poi influito nel rapporto tra architettura e ideologia per un intero periodo storico. Ma è con Per una critica dell'ideologia architettonica che Tafuri, seguendo l'indicazione di Benjamin, inizia a porsi il problema della posizione dell'architettura dentro i rapporti di produzione capitalistici. Lo fa in modo molto netto stabilendo un legame quasi meccanico tra il “dover essere” delle avanguardie intellettuali e le ideologie delle “avanguardie del capitale”, cioè tra le avanguardie intellettuali che assumono una “missione sociale” e le avanguardie del capitale che rendono funzionale al ciclo capitalistico tale “missione”: quanto più è alta la sublimazione dei conflitti sul piano della “forma”, tanto più restano nascoste le strutture che permettono tale sublimazione.

È tuttavia durante l'Illuminismo che si forma l’architetto come ideologo del “sociale”, ritagliandosi un campo di intervento nella fenomenologia urbana. Si assegna un ruolo persuasivo alla “forma”, anche mediante una dialettica, sempre sul livello formale , fra il ruolo “dell'oggetto architettonico” e l'organizzazione urbana. La città non è letta come struttura che determina, attivando specifici meccanismi di accumulazione capitalista, le trasformazioni del processo di sfruttamento del suolo e delle rendite agricole e urbane. La città è concepita come un fenomeno assimilabile ad un evento naturale e viene svincolata da ogni considerazione di tipo strutturale. Questo “naturalismo formale” serve in un primo momento:
per persuadere sulla necessità oggettiva dei processi messi in moto dalla borghesia pre-rivoluzionaria; in un secondo momento per consolidare e proteggere da ogni ulteriore trasformazione le conquiste acquisite. Dall’altro lato quel naturalismo svolge la propria funzione nell’assicurare all’attività artistica un ruolo ideologico in senso stretto. Non è casuale che proprio nel momento in cui l’economia borghese inizia a scoprire e a fondare le proprie categorie di azione e giudizio, dando ai “valori” contenuti direttamente misurabili dai nuovi metodi di produzione e scambio, la crisi degli antichi sistemi di “valori” venga subito coperta da un ricorso a nuove sublimazioni, rese artificialmente oggettive attraverso l’appello all’universalità della natura.[27]

In questa “dialettica dell’illuminismo” l’architettura rinuncia al tradizionale ruolo simbolico per scoprire la propria vocazione scientifica. Così essa può divenire contemporaneamente uno strumento di equilibrio sociale e una “scienza delle sensazioni”. E’ un’architettura che pone esplicitamente il proprio operato su un terreno politico. Gli architetti, in quanto agenti politici, devono assumersi il compito di inventare continuamente soluzioni che possono essere generalizzate andando oltre i singoli contesti urbani. L’architettura è quel particolare “lavoro intellettuale” che deve sistematicamente rivoluzionare se stesso, assegnando all’ideologia un ruolo determinante, per stare al passo dell’incessante “rivoluzione” del modo di produzione capitalistico. Il rapporto tra “rivoluzioni architettoniche” e “rivoluzioni capitalistiche” non è per Tafuri la semplice influenza reciproca e tanto meno il facile rispecchiamento delle une nelle altre e viceversa. L’ideologia architettonica, riferita alle tecniche costruttive, alla relazione tra le forme e tra i volumi nella morfologia urbana, alle teorie della progettazione, si forma all’interno delle trasformazioni dei rapporti di produzione. È un’ideologia che non si accontenta di essere solo mistificazione della realtà e falsa coscienza, ma è orientata dalla ricerca dei propri elementi costitutivi nella “materialità” – organizzazione del lavoro, codici simbolici della produzione, il lavoro oggettivato nelle tecniche e nelle macchine – dello sfruttamento capitalistico del lavoro vivo.

Da questo punto di vista Tafuri ricostruisce la dialettica immanente che ha interessato tutta l’architettura moderna. Una dialettica che sembra opporre chi tenta di scavare a fondo nel reale per assumerne i valori e le miserie a coloro che invece vogliono spingersi oltre il reale per costruire nuove realtà, nuovi valori, nuovi simboli pubblici.[28] La città diventa il luogo dell’espressione dell’ideologia che sta alla base delle teorie architettoniche e urbanistiche tra il Settecento e l’Ottocento. I modelli urbani di riferimento, che emergono dai nuovi rapporti di produzione, che si consolidano durante la rivoluzione industriale, possono essere ricondotti a tre variabili fondamentali. La città come insieme di “bellezze particolari” tutte differenti, in cui da una regolarità della moltitudine di singole parti risulti un’idea di irregolarità. Un insieme di ordine e caos, di regolarità e irregolarità, di organicità e disorganicità in cui il controllo di una realtà disorganica serve non tanto per agire sulla struttura urbana, ma per far emergere da essa una molteplicità di significati.

A questa “pratica urbana” della città si contrappone una concezione che si riferisce a un certo rigorismo tradizionale che, che a ben vedere, affonda le radici nella razionalità della Roma classica del De architectura di Vitruvio Pollione. Gli interventi sulla città vanno compiuti introducendo nell’organizzazione urbana, e nei suoi valori contradditori, un “luogo dirompente” capace di irradiare i suoi effetti sull’intero tessuto urbano. Il terzo modello è il pragmatismo della città americana. Il rapporto che lega gli schemi di sviluppo della città americana ai valori che si affermano nella società statunitense mette esplicitamente da parte la possibilità di intervenire direttamente su quelle forze che provocano i mutamenti morfologici della città. La maglia regolare delle strade di scorrimento è il supporto a una struttura urbana di cui si vuol salvaguardare il continuo mutamento. La libertà di localizzare il singolo oggetto architettonico non condiziona in alcun modo il contesto in cui è inserito. La città americana attribuisce il massimo della libertà e articolazione agli elementi “secondari” che la configurano, mantenendo tuttavia molto rigide le leggi che governano l’insieme dell’assetto urbano.

Tre modelli di città corrispondenti a tre modelli di capitalismo che si presentano contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti nell’Ottocento? Tafuri non arriva a questa conclusione, non stabilisce una relazione così stretta. La sua riflessione si mantiene all’interno dei confini della continua ricerca della “posizione dell’architettura dentro i rapporti di produzione capitalistici”. Tuttavia questa ricerca arriva in un vicolo cieco nella parte finale di Per la critica dell’ideologia architettonica, in cui egli tenta di combinarla ad uno dei principali assunti dell’operaismo italiano e cioè la supposta estraneità della classe operaia alle idee dominanti. Riaffiora la concezione di Tronti della classe operaia come “rude razza pagana”:
L’architettura moderna ha segnato le vie del proprio destino facendosi portatrice di ideali di progresso e razionalizzazione cui la classe operaia è estranea, o da cui è investita solo in una prospettiva socialdemocratica. Si potrà riconoscere l’inevitabilità storica di tale fenomeno ma una volta riconosciuto non è più possibile nascondere la realtà ultima che rende inutilmente angosciose le scelte degli architetti di “sinistra”.[29]

La determinazione della “composizione di classe” può seguire solo due vie: anticipare lo sviluppo urbano e capitalistico con i comportamenti e le lotte oppure rimanere intrappolata in una dimensione socialdemocratica. Non c’è un’altra strada.

Quattro anni dopo, in Progetto e utopia, [30] Tafuri ritorna su questi temi ampliando e rivedendo molte analisi e prese di posizione. L’esperienza della rivista Contropiano si è ormai conclusa, l’operaismo italiano è attraversato da una profonda diaspora che non riguarda solo coloro che pensano ad un’organizzazione autonoma in contrapposizione a chi ritiene percorribile “un uso operaio” del Partito Comunista. In mezzo c’è stato lo scioglimento di Potere Operaio – il fallimento del principale progetto politico e organizzativo per ricomporre l’area operaista –, e l’ingresso nel PCI di una parte degli intellettuali operaisti non ha prodotto al suo interno alcuna contraddizione significativa.

La pubblicazione di Progetto e utopia, una rielaborazione di Per una critica dell’ideologia architettonica con l’inserimento di alcune parti di Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, è anche l’occasione per rispondere alle critiche che avevano sollevato i saggi contenuti in Contropiano. Innanzitutto non si parla più di “scienza marxista” ma di “critica marxista” ed invece che del legame quasi meccanico tra il “dover essere” delle avanguardie intellettuali e le ideologie delle “avanguardie del capitale” si parla solo della tacita intesa tra le avanguardie intellettuali: il solo tentare di portare alla luce questa intesa solleva un coro di indignate proteste.[31] Non si trova più quell’alternativa secca tra l’anticipazione dello sviluppo capitalistico con i comportamenti autonomi della classe operaia e l’assoggettamento alla socialdemocrazia. La classe operaia non è più estranea agli ideali di razionalizzazione di cui è portatrice l’architettura moderna, ne è investita anche se in seconda istanza e all’interno di un’autonoma strategia politica. La critica marxista dell’ideologia dell’architettura e dell’urbanistica deve porsi anche il problema di demistificare la realtà contingente, perché dietro le categorie unificanti di arte, architettura, città si nascondono delle false “oggettività e universalità”. I “movimenti di classe” sono chiamati a confrontarsi con i nuovi livelli dello sviluppo capitalista, con “l’ambiguità dell’ideologia borghese”, presa nella tensione fra obiettivi “progressisti” e la necessità della propria oggettiva mercificazione.[32]

Questo confronto ha bisogno di una lettura in profondità dell’ideologia capitalista in relazione ai rapporti di produzione. Tafuri analizza il doppio movimento che compie l’ideologia. In primo luogo essa è ormai data una volta per tutte nella forma della dialettica che fa della contraddizione l’elemento dinamico dello sviluppo. Tuttavia, se da una parte, ogni elaborazione ideologica compiuta in un sistema istituzionale di valori non è che una pura e semplice riproposizione di tali valori, dall’altra l’ideologia non può che ripercorrere sempre e continuamente le stesse strade per “riscoprire” la forma più alta di se stessa nella forma della mediazione.[33] Non la mediazione politica e sociale dei contenuti e dei significati dei valori veicolati dal sistema capitalistico, ma la forma in quanto tale della continua mediazione tra conferma e “riscoperta” di quei valori. In ultima analisi per sopravvivere l’ideologia deve negarsi, rompere la catena di significati cristallizzati e proiettarsi nella “costruzione del destino” degli uomini.

Un’analisi storica dell’architettura del “Movimento Moderno”, come strumento ideologico, dalla metà dell’Ottocento agli anni ’30 del Novecento, permette di individuare tre fasi successive:

a- il formarsi dell’ideologia urbana come superamento delle mitologie tardo-romantiche;

b- il ruolo delle avanguardie artistiche nell’indicare i “bisogni insoddisfatti” che la pittura, la poesia o la scultura non possono realizzare che a livello puramente ideale e che invece solo l’architettura e l’urbanistica sono in grado di concretizzare;

c- la trasformazione dell’ideologia architettonica in ideologia del Piano, con le teorie anticicliche dopo la crisi economica del 1929 e il primo piano quinquennale dell’Unione Sovietica.

Questo aspetto dell’ideologia architettonica che diventa ideologia del Piano impegna Tafuri in un confronto indiretto con Tronti. Nel saggio Marx, forza lavoro, classe operaia Tronti teorizza che tutto l’apparato funzionale dell’ideologia borghese è stato consegnato dal capitale nelle mani del movimento operaio ufficialmente riconosciuto. Il capitale non gestisce più la propria ideologia ma la fa gestire al movimento operaio. Quindi la critica dell’ideologia è un compito interno al “punto di vista operaio”, che solo in un secondo momento riguarda il capitale.[34] Tafuri partendo da un riconoscimento formale della validità dell’elaborazione di Tronti sull’ideologia, in realtà se ne discosta quando affronta il tema della pianificazione in generale e di quella territoriale in particolare. Si è generata un’illusione, dice, che la battaglia per la pianificazione potesse costituire tout-court un obiettivo della lotta di classe. Non si tratta nemmeno di contrapporre “piani buoni” a “piani cattivi”, l’importante è riuscire a capire quali condizionamenti delle “strutture di piano” siano utili per gli obiettivi contingenti di parte operaia.

Vale a dire che, nell’abbandonare il sogno del “mondo nuovo” che sorge dal realizzarsi del principio di Ragione fattosi Piano, non si compie alcuna rinuncia, né si prospettano apocalittici silenzi. Riconoscere l’inagibilità di strumenti inoffensivi è solo il primo passo necessario, ricordando come sia sempre presente il pericolo di vedere raccolte dall’intellettuale “di classe” missioni e ideologie svendute dall’avversario nel corso dei propri processi di razionalizzazione.[35]

La pianificazione territoriale realmente esistita ed esistente si è trasformata spesso, se non sempre, in una centralità dei sistemi di gestione del Piano rispetto al Piano stesso e l’ideologia dell’equilibrio presente sia negli insegnamenti delle teorie economiche post-keynesiane che nei piani quinquennali sovietici si rivela un idolo inefficace. In un contesto capitalistico che continuamente “agisce” gli squilibri per legare crisi e sviluppo, rivoluzione tecnologica e mutamento della composizione organica del capitale, assumere come prospettiva la pianificazione pacificata dell’assetto territoriale non ha nulla di “ alternativo”, è solo uno sterile anacronismo.

La critica di Tafuri era rivolta in modo esplicito agli architetti ed agli amministratori delle regioni “rosse” italiane degli anni ’70 del secolo scorso, che avevano come obiettivo quello di “regolare” i meccanismi capitalistici che stavano alla base della formazione degli assetti urbani. Al tempo stesso essa non si allineava con la posizione di Tronti che vedeva la questione dell’ideologia come un problema di gestione interna alla classe operaia. Per Tafuri l’ideologia della pianificazione è l’espressione della crisi dei dispositivi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, è il terreno avanzato degli “squilibri” del sistema capitalistico perché nel momento in cui si tenta di pianificare un sistema economico capitalistico non si fa altro che pianificarne gli “squilibri”. In questo egli non vede una grande differenza con la pianificazione sovietica, che per ovviare alla crisi del Piano lo ha trasformato in una istituzione dello Stato riproducendo, in questo modo, squilibri e contraddizioni a un livello superiore.

Qual è quindi il rapporto tra architettura e ideologia? Nell’architettura è quanto meno inutile definire l’ideologia come falsa coscienza intellettuale. Nessuna opera architettonica, anche la più mediocre e scadente, riesce a “riflettere” un’ideologia preesistente ad essa: “Con le teorie sul riflesso e il rispecchiamento la partita è chiusa da un pezzo”.[36] L’ideologia dunque risiede nello scarto che l’opera architettonica compie rispetto all’altro da sé. E l’altro da sé sono le sue condizioni di produzione, di uso, di esistenza. Sono la natura e la forma di questo scarto che producono ideologia. Bisogna tuttavia tener conto di un’importante avvertenza: esiste uno scarto anche tra l’ideologia incorporata nell’opera architettonica e i modi di produzione dell’ideologia in un dato periodo storico. Affrontare e analizzare questa doppia determinazione ideologica richiede l’acquisizione di strumenti di ricostruzione critica e della capacità di riconoscere immediatamente in che modo lo scarto funzioni rispetto al reale. In che modo cioè esso si comprometta nei confronti del mondo e quali siano le condizioni che ne permettono l’esistenza. Ad una ideologia di natura puramente documentaria che tende a plasmarsi sull’ordine esistente, nella storia dell’architettura si contrappongono almeno altri tre modi di produzione ideologica:

a- un’ideologia “progressiva” che, puntando sul solo strumento dell’immagine, prefigura una presa di possesso del reale nella sua totalità. Si tratta di quell’avanguardia che alla prova decisiva dei fatti, nello scontro con le forme di costruzione e mediazione del consenso, è stata ridotta a pura propaganda;

b- un’ideologia “regressiva” vale a dire un’“utopia della nostalgia”, espressa in tutte le forme di pensiero antiurbano che, per opporsi alla realtà mercificata delle metropoli, recuperano mitologie di natura “comunitaria”;

c- un’ideologia “istituzionale” che insiste sulla riforma delle istituzioni relative alla gestione urbana, territoriale o del settore edilizio, anticipando nuovi “modi di produzione” e un diverso assetto della divisione del lavoro. [37]

Questa classificazione non ha tuttavia per Tafuri un valore paradigmatico, è uno strumento di lavoro per comprendere la doppia determinazione di quello “scarto” che fonda il rapporto tra architettura e ideologia. Un rapporto che parte dall’idea che tra istituzioni e sistemi di potere non esista una perfetta identità. E l’architettura in quanto istituzione non è un blocco ideologico unitario, le sue ideologie agiscono in modo per nulla lineare. Spesso si rimane in superficie e si fa i conti solo con gli aspetti più evidenti e immediati dell’ideologia architettonica, ma per andare in profondità non è nemmeno sufficiente spostare l’attenzione dal testo architettonico al contesto urbano. Il contesto è fatto di linguaggi artistici, realtà fisiche, comportamenti, dimensioni urbane e territoriali, dinamiche politiche e economiche ed è continuamente spezzato da ideologie sotterranee eppure agenti a livello sociale, da tecniche di dominio diverse ognuna con un proprio linguaggio. Solo assumendo questa pluralità nascosta di significati molteplici si riuscirà a rompere il feticcio che si condensa attorno ad un’ideologia.[38] Ma a questo punto sorge un nuovo problema:
l’ideologia non agisce mai come forza “pura”. Non solo essa “sporca” la prassi ed è “sporcata” da questa, ma si intreccia ad altre ideologie, spesso antitetiche. Si potrebbe affermare che le ideologie agiscono per fasci e si espandono capillarmente nella costruzione del reale.[39]

I “fasci ideologici” di Tafuri non sono da intendere, nel loro interagire, come i “rizomi” di Deleuze e Guattari. Al contrario, è necessario “non far rizoma” con i fasci ideologici per rendere l’analisi “fecondamente incerta” nella sua interminabilità, nel suo dovere tornare sempre e di nuovo sugli aspetti esaminati e, contemporaneamente, su se stessa.

4. Lavoro intellettuale e produzione capitalistica

Misurarsi con le trasformazioni del lavoro intellettuale usando le categorie marxiane di lavoro astratto e lavoro concreto non è certo un’impresa facile. Da una parte si può correre il rischio di una generalizzazione indebita assimilando tutto il lavoro intellettuale a un lavoro produttivo di natura tayloristica, al contrario dall’altra parte c’è il rischio di una separazione netta e rigida tra attività direttamente produttive e un lavoro intellettuale che non entra nel processo di valorizzazione del capitale. Tafuri affronta fino in fondo questi rischi e gli esiti non sono sempre positivi.

In Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico[40] l’influenza delle teorie operaiste di Tronti è molto evidente, tanto da dare l’impressione che l’intera analisi sia ingabbiata all’interno di uno schema che deve essere confermato a priori. Le forme e i contenuti del lavoro intellettuale sono letti all’interno di un Piano del Capitale. [41] Il lavoro intellettuale diventa progressivamente lavoro produttivo a livello sociale. Anche se rimane aperto il problema della sua collocazione nel ciclo capitalistico, il lavoro intellettuale tende comunque a riconoscersi e a funzionare come “scienza capitalista”, che si separa oggettivamente dai ruoli più “arretrati” del lavoro ideologico che hanno come scopo la pura mistificazione della realtà. In questo contesto la divisione classica tra lavoro concreto e lavoro astratto perde la sua funzione nella dimensione allargata della produzione sociale. Il lavoro intellettuale, quindi, tende ad assumere i connotati del lavoro operaio non per i contenuti e le forme di erogazione ma per il rapporto che stabilisce con il capitale. Ma se il capitale tende ad estendere il suo dominio sull’intero universo sociale e il Piano del Capitale è messo in pratica dal funzionamento della società, si avrebbe una società che allo stesso tempo è il prodotto dei rapporti di produzione capitalistici e, attraverso una pianificazione democratica, ne programma oggettivamente il loro sviluppo.

Qui, l’analisi di Tafuri arriva in un vicolo cieco. Non gli rimane che tornare indietro e rivedere parzialmente il percorso. Già nel saggio sul lavoro intellettuale in Contropiano venivano avanzate alcune ipotesi che in qualche modo accennavano alla necessità di un cambiamento di approccio. Le teorie operaiste risultavano troppo rigide per poterle assumere come unico punto di riferimento. Due esempi, a questo proposito, sono illuminanti. Il primo era riferito alle nuove caratteristiche della forza-lavoro intellettuale come l’intercambiabilità, la polivalenza e la preparazione interdisciplinare che sono acquisite già nel momento della formazione: sarebbe scorretto, dunque, trasferire l’analisi relativa all’omogeneizzazione del lavoro astratto in fabbrica nell’analisi dei nuovi ruoli del lavoro intellettuale. Il secondo riguardava il tentativo dell’urbanistica moderna di dare forma alla dinamica di uno sviluppo urbano che non si è concretizzato in alcun tipo di pianificazione territoriale preso come modello. Insomma un Piano del Capitale che alla prova dei fatti non ha capacità e strumenti per pianificare.

La questione rimane sospesa per alcuni anni fino a quando Tafuri non si pone direttamente il problema della definizione dell’architettura come lavoro intellettuale.

Punteremo l’attenzione sull’architettura come particolare forma del lavoro intellettuale: un lavoro intellettuale che ha il privilegio di insistere su una gamma di attività direttamente produttive. Ciò significa porre l’accento su una dialettica: quella che viene a istituirsi via via nel tempo tra lavoro concreto e lavoro astratto nel significato marxiano dei termini[42]

È un’impostazione che intende rispondere all’interrogativo di Benjamin che pone in primo piano la funzione dell’opera all’interno dei rapporti di produzione. In Tafuri tuttavia sembra sia presente una continua oscillazione tra due interpretazioni del lavoro astratto. Laddove afferma che la dialettica lavoro concreto-lavoro astratto si ripropone ogni volta, con caratteri sempre originali, in cui si produce un meccanismo di integrazione tra la prefigurazione intellettuale e i modi di produzione c’è un accenno a una concezione del lavoro astratto come fosse una costruzione del pensiero e non un processo specifico del sistema capitalistico. Quando invece sottopone ogni volta il lavoro intellettuale dell’architettura, a partire dalle forme linguistiche e simboliche del progetto architettonico, ad un esame capace di mettere in ogni istante in causa la legittimità storica della divisione capitalistica del lavoro assume fino in fondo l’elaborazione di Marx sul carattere duplice del lavoro. Nel lavoro intellettuale, sebbene particolare, dell’architettura non si lavora nello stesso tempo due volte, una volta concretamente e l’altra astrattamente. La duplicità del lavoro nello stesso momento genera valore con il lavoro astratto e conserva e trasmette valore con il lavoro concreto. [43]

La nuova pista di ricerca che Tafuri apriva riguardava il lavoro astratto in architettura come lavoro vivo che produce valore. Purtroppo questa rimarrà una suggestione che non troverà interlocutori e sostegno. Non è un caso che Tafuri sia rimasto isolato: aveva posto quarant’anni fa una questione di cui si vede solo oggi la natura e la portata. La sussunzione reale del lavoro intellettuale dell’architettura al capitale attualmente passa attraverso il lavoro oggettivato nei vari software dedicati alla progettazione. Un processo parzialmente intravisto da Tafuri già nel 1970:
[…] è necessario espellere dai linguaggi formalizzati di programmazione l’ambiguità del linguaggio “naturale”; alle tecniche di creazione dei linguaggi artificiali è riservato l’unico compito di innovazione ammissibile al livello di comunicazione: quello, appunto, rivolto alla strumentazione efficiente delle tecniche decisionali.[44]

E una disciplina come l’architettura è soggetta a un continuo e incessante rinnovamento in cui la comunicazione diventa un fattore “produttivo”. È partendo da qui che diventa necessario passare da una critica che si esercita sulla disciplina e sulle sue tecniche particolari, a una critica della disciplina in quanto tale.

5. Avanguardie e utopia

Le avanguardie artistiche dei primi decenni del secolo scorso hanno esercitato un’efficace critica delle discipline? E le utopie prodotte sono state veramente alternative ad una società che faceva del feticismo delle merci uno degli aspetti privilegiati per riprodurre costantemente il proprio funzionamento e la propria esistenza? Sono le domande che si pone Tafuri lungo un arco di tempo durato venticinque anni. Le avanguardie e le utopie sono state i punti di riferimento di quello che, nell’architettura, è stato definito Movimento Moderno. Una definizione che Tafuri considera “consolatoria e inoperante”. Quello che è stato chiamato Movimento Moderno viene collocato all’interno di un insieme di sforzi soggettivi compiuti per recuperare su nuove basi l’identità perduta dell’architettura. La costruzione del concetto di “movimento moderno” è stata un tentativo di accreditare “una collettiva e teleologica dottrina della nuova architettura”, [45] rimanendo tuttavia all’interno perlopiù di iniziative soggettive. Se non si comprendono queste premesse risulta difficile poi capire la posizione di Tafuri rispetto alle avanguardie e alle utopie novecentesche.

Ancora una volta sono gli scritti di Benjamin, questa volta quelli su Baudelaire e Parigi [46], il punto di partenza e di riferimento di Tafuri. La metropoli capitalista è il contesto in cui agiscono le avanguardie artistiche e i compiti che esse assumono consistono nel sottrarre l’esperienza dello choc ad ogni automatismo, fondare su quell’esperienza codici visivi e di azione mutuati dalle caratteristiche già consolidate della metropoli capitalista – velocità dei tempi di trasformazione, organizzazione e simultaneità delle comunicazioni, tempi d’uso accelerati, eclettismo – ridurre al puro oggetto (metafora palese dell’oggetto – merce) la struttura dell’esperienza artistica, coinvolgere il pubblico, unificato in una dichiarata ideologia interclassista e perciò antiborghese.[47]

Queste caratteristiche dell’azione delle avanguardie, nel loro insieme, vanno oltre le distinzioni fra Costruttivismo, Cubismo, Futurismo, Dada e De Stijl. Le avanguardie sorgono e si succedono seguendo la legge tipica della produzione industriale: la continua rivoluzione è l’essenza dei processi produttivi e, siccome gli oggetti e i materiali usati appartengono al mondo reale, l’organizzazione del loro montaggio diviene il campo neutro, in cui si proietta l’azione delle avanguardie, per portare alla luce l’esperienza dello choc subita nella città.

Nel momento in cui con il Cubismo e il Futurismo italiano e russo si apre una nuova stagione dell’arte contemporanea, si pone il problema di uscire dall’angoscia provocata dalla “perdita del centro” e dalla solitudine del soggetto investito dalla “rivolta degli oggetti”. Qui, in questo punto, la ricerca di Tafuri arriva ad uno snodo decisivo che non è risolvibile con i soli strumenti della critica all’ideologia architettonica. Si apre un percorso che, senza essere esplicitato fino in fondo, cerca di stabilire identità e differenze tra i concetti di alienazione, di reificazione e feticismo delle merci in relazione con l’affermarsi delle avanguardie. È evidente che per Tafuri alienazione e reificazione non hanno il medesimo significato e l’azione delle avanguardie artistiche dell’inizio del novecento non si limita solo all’accentuazione dell’estraniazione vissuta nella società capitalistica con lo scopo, più o meno dichiarato, di rovesciarne il segno. Se, riprendendo Marx, con la sussunzione reale del lavoro al capitale i rapporti tra le persone sono mediati dalle cose, ciò investe anche l’azione delle avanguardie. Un’azione che non può essere letta come semplice denuncia degli aspetti alienanti di un modo di produzione sociale, ma ha essa stessa tra i suoi elementi costitutivi non solo la “personificazione delle cose”, ma anche la “reificazione delle persone”.

L’analisi che Tafuri fa del Dadaismo mostra chiaramente i contorni di questa dialettica.

L’istanza del Dadaismo va alle radici del pensiero nietzschiano. Se il vento della mercificazione globale ha reso anacronistico ogni Valore e ridicola ogni istanza di Forma, affondare nell’informe può avere come risultato “salvarsi l’anima”. La città posta sotto il dominio della merce è anarchia: in essa ogni “familiarità” è menzogna; vale solo la casualità più sfrenata. […] Dada non mostra solo l’indifferenza con cui l’uomo che ha il coraggio di guardare in faccia la realtà della mercificazione considera le cose, ma anche il vuoto che la fine dei valori ( la nietzscheana “ morte di Dio”) lascia dietro di sé. […] Gli oggetti indifferenti che “galleggiano sospesi nel flusso della corrente monetaria” sono ora disponibili: ridotti a segni, essi possono essere inseriti in un processo di metamorfosi continue.[48]

L’opera distruttiva delle avanguardie “negative” fa emergere in modo quasi paradossale il volto “costruttivo” della continua trasformazione del modo di produzione capitalistico. Sarebbe tuttavia errato, avverte Tafuri, leggere nel percorso delle avanguardie artistiche europee un avanzamento lineare verso il disincanto e la completa affermazione della riproducibilità tecnica dell’arte e dell’architettura. Piuttosto, ad esempio, sotto l’agire iconoclasta del Futurismo e del Dadaismo compare a volte la nostalgia per vecchi valori ormai irrecuperabili. Ma una dialettica che produce una sintesi, seppur provvisoria, non è nell’ordine del discorso di Tafuri, ed infatti una volta stabiliti gli aspetti del possibile sviluppo di tale dialettica, egli non li fa interagire, ma li mette di nuovo in crisi ponendoli in un’ulteriore contraddizione.

La provocazione – l’inestricabile groviglio di mistificazioni e valori, che d’ora in poi informerà l’arte contemporanea – è solo la pelle esterna di un processo alto borghese di presa di possesso dell’universo tecnologico. Per questo, residui mistici e disincantamento si alternano e si sovrappongono: l’essenza “politica” dell’avanguardia è nella sua profezia di liberazione totale delle “anime” una volta vinta la materia.[49]

Questo è ancor più vero guardando al ruolo svolto dal Bauhaus in quanto luogo di decantazione delle avanguardie che ha progressivamente assunto il compito di selezionare tutti gli apporti delle avanguardie stesse mettendoli alla prova di fronte alle esigenze del sistema produttivo. Vincere “la materia per liberare le anime” sembra essere più un imperativo etico che una prassi conflittuale che fa i conti con il feticismo delle merci, dei progetti e - perché no ? - delle utopie. Non c’è mito, non c’è enfasi in Tafuri quando affronta la storia delle avanguardie. C’è una lucidità che a volte sfocia in giudizi lapidari e feroci. La benjaminiana “perdita dell’aura” riguarda anche le avanguardie e un’analisi all’altezza delle trasformazioni capitalistiche del lavoro intellettuale non deve fare sconti. Un approccio che chiama in causa direttamente anche le utopie.

Le utopie delle avanguardie vengono lette a partire dallo stato in cui versa l’architettura negli anni ’70 del Novecento: il passato viene letto con gli occhiali del presente. E qual è lo stato dell’architettura negli anni ’70? Sta attraversando un “dramma”, quello cioè di essere costretta a tornare pura architettura, ad “un’ istanza di forma” priva di utopia e, nei casi migliori, a diventare sublime inutilità.[50] La fine delle utopie delle avanguardie storiche ha delle conseguenze immediate sulla formazione di nuove ideologie urbane. Ricondurre i problemi generali nell’ambito della struttura dei rapporti di produzione, come fanno le ideologie urbane dalla metà degli anni ’40 del secolo scorso, annulla il sogno romantico dell’incidenza esclusiva dell’azione soggettiva sull’andamento del “destino sociale”. L’utopia è sotto scacco e rivela allo stesso pensiero alto-borghese, si pensi a Weber e a Simmel, che il concetto stesso di destino è una creazione legata ai nuovi rapporti di produzione.

Non si deve tuttavia intendere che alla fine dell’utopismo sia succeduta la nascita di un nuovo realismo. Anzi ci si trova davanti ad una sovrapposizione, ad una compensazione, tra utopismo realistico e realismo utopico. Le ideologie architettoniche e urbane rimangono ancorate ad un’utopia della forma, come progetto di recupero della totalità umana in una sintesi ideale, ma sono contemporaneamente sovradeterminate dalla politica delle cose realizzata dalle leggi del profitto. L’utopia della forma e la politica della cose come due facce della stessa medaglia. Non si può più parlare di utopia come progetto, ancor meno come di un progetto di trasformazione. Nel campo artistico e architettonico l’utopia si è risolta nell’integrazione della radicalità del momento soggettivo all’interno del meccanismo complessivo della razionalizzazione capitalista. Tanto da far supporre che Tafuri arrivi alla conclusione che la fine delle utopie si sia tramutata in un’etica della razionalizzazione.

In realtà il suo obiettivo è di andare oltre la critica “dei critici di architettura” per porre le basi di una critica dell’ideologia architettonica. Non la critica delle forme e dei contenuti dell’architettura ma la critica della posizione dell’architettura nei rapporti di produzione, una critica che diventa storia e una storia che si fa critica. Sembra di poter scorgere in tutta la elaborazione di Tafuri riferita alle avanguardie e alle utopie la presenza, sebbene solo evocata e mai dichiarata, del metodo dell’economia politica che Marx illustra in Per la critica dell’economia politica:[51] solo le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto come sintesi di molte determinazioni e unità del molteplice.

6. La “Vienna rossa”

A prima vista che cosa c’è di più concreto delle politiche urbane adottate nelle metropoli europee e americane tra le due guerre mondiali? Un periodo attraversato da avanguardie, utopie e grandi rivolgimenti sociali. Tafuri si misura con i tentativi di riforma urbana messi in campo nella Germania della Repubblica di Weimar, nella Mosca post-rivoluzionaria, nelle metropoli statunitensi di inizio novecento e, soprattutto, con il caso a suo giudizio più avanzato: la “Vienna rossa” amministrata dal Partito Socialdemocratico (SPO) dal 1919 al 1933. Per quanto riguarda gli interventi urbanistici a Berlino e Francoforte durante la Repubblica di Weimar, Tafuri arriva a una conclusione che sinteticamente, senza aver la pretesa di rendere la ricchezza del suo pensiero, si può riassumere in questo modo: le siedlungen[52] di Berlino e Francoforte sono agglomerati residenziali che evocano in modo contraddittorio più “utopie realizzate” che interventi qualificanti una nuova dimensione urbana della città. Sono spesso un’esibizione ideologica di una teorica “città operaia” che si configura come città etica, città dell’igiene fisica e sociale, città della pace sociale.[53]

Diverso il caso di Mosca negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione del 1917. È una città che diviene il campo di molte sperimentazioni, che spesso però non incrociano i temi delle avanguardie artistiche europee. L’ipotesi della città socialista viene avanzata come sviluppo dei programmi elaborati fra l’Ottocento e il primo decennio del Novecento dalla cultura borghese. C’è, infatti, la convinzione che quei programmi utopici e incompleti all’interno dei paesi capitalistici possano trovare una loro concretezza solo nel paese che ha instaurato il “socialismo”.

Ma è Vienna, si diceva, che a parere di Tafuri rappresenta il caso più interessante e denso di riflessioni.
Eccezionale, infatti, il coacervo di riflessioni teoriche cui si ispira la politica austromarxista, eccezionali gli strumenti economici e gestionali per dar vita al programma edilizio della Gemeinde Wien, eccezionali i fini ultimi cui tendono questi strumenti, eccezionali gli apparati formali che rendono visibile quel programma. Eppure, in nessun altro ambiente come in quello viennese si fa palese il carattere conflittuale dell’intreccio fra tecniche, ideologia e forma: realmente, e non solo metaforicamente, lo spazio storico individuato dal “rote Wien” è il luogo di una battaglia.[54]
Con queste premesse si tratta di capire perché l’esperienza della “Vienna rossa” si sia trasformata in una “tragica epopea”. Non si può che iniziare facendo un breve ricognizione delle teorie elaborate da un gruppo di intellettuali, dirigenti politici e avanguardie sociali riuniti attorno all’associazione Zukunft e a riviste come Marx-Studien e Der Kampf, che vennero definiti “austromarxisti” ed avevano Max Adler e Otto Bauer tra i principali esponenti. Max Adler scrive nel 1908 che “ogni causalità sociale corre solo all’interno di una determinata forma teleologica, che le imprime la natura spirituale dell’uomo ed è quindi intrinsecamente finalistica”. Nell’uomo, egli aggiunge, “l’essere non è più uno stato materiale, bensì qualcosa da non considerare altrimenti che come realizzazione spirituale, come pensiero, volontà e azione”.[55] C’è in questa elaborazione un evidente spostamento verso il neokantismo delle determinazioni proposte da Marx sul rapporto tra essere sociale e coscienza. Otto Bauer perviene alla conclusione che la natura della Stato, nell’Austria della fine degli anni ’10 del Novecento, coincida con l’ipotesi che faceva Engels della possibilità eccezionale che vi siano “dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, e il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe”.[56] Per Bauer l’Austria di inizio Novecento si trova in questa situazione, che si prolungherà per un paio di decenni.

L’uomo non più come essere sociale e lo Stato come un apparato autonomo di fronte alle classi: questi sono i capisaldi di una riflessione teorica che influenzerà anche le politiche urbane. Nel 1920 il Partito Socialdemocratico abbandona la coalizione del governo centrale perché la mancanza di risultati (la legge del 1919 sulla nazionalizzazione delle imprese non trova applicazione per l’opposizione dei cristiano-sociali) sta generando un notevole malcontento nella propria base sociale. Si tratta di una ritirata strategica per meglio concentrare gli sforzi su Vienna, già amministrata dai socialdemocratici dal 1919. Ciò che risulta irrealizzabile, questo è il ragionamento, nella partecipazione alla gestione dello Stato centrale è attuabile nella Capitale. Si vogliono dimostrare in modo esemplare le qualità di un’amministrazione socialista in uno Stato che ha nell’autonomia dalle classi il proprio carattere distintivo.

I primi provvedimenti assunti dall’amministrazione socialista di Vienna sono improntati a un riformismo urbano più radicale rispetto alle politiche di altre città europee. Un decreto del 1919 sulla requisizione degli alloggi che permette al Comune di controllare 45.000 abitazioni, la riforma (1922) della legge sulla protezione a tempo indeterminato degli inquilini e l’approvazione di un piano di intervento (1923) in cui si programma la costruzione di 5.000 appartamenti all’anno per cinque anni. I finanziamenti necessari vengono reperiti attraverso la tassazione dei canoni di affitto sia per gli inquilini che per i proprietari e poi da una tassa a carattere progressivo sulle nuove costruzioni private. I proprietari degli alloggi reagiscono accusando la SPO di “bolscevismo dell’edilizia” e minacciando uno sciopero nazionale che prevede il non pagamento delle tasse e il taglio della fornitura dell’acqua e delle linee telefoniche agli alloggi. Il Partito Socialdemocratico invita gli inquilini a formare dei comitati di caseggiato che assumano direttamente l’amministrazione degli alloggi. Lo sciopero dei proprietari dura un solo giorno e viene attuato solo a Vienna. Non sarà comunque l’unico episodio, lo scontro con i proprietari si ripeterà negli anni successivi.

Nel dibattito che si sviluppa tra architetti, amministratori “socialisti” e comitati di inquilini sulle tipologie abitative sui piani quinquennali di intervento urbano si mette al centro la relazione tra la città e i nuovi insediamenti. Da una parte ci sono i sostenitori, tra cui Adolf Loos e Josef Frank, delle Siedlungen a bassa densità urbana costruite alla periferia della città, dall’altra invece i fautori, tra cui Peter Behrens e Karl Ehn[57], degli Hofe.[58] Con l’affermazione del modello degli Hofe, tra il 1919 e il 1933, il Comune di Vienna ne costruisce 370 di varie dimensioni (il 70% di tutta la produzione edilizia tra le due guerre) e vara un piano di intervento pubblico di notevoli dimensioni con lo scopo di modificare il funzionamento di un settore importante dell’economia capitalista come l’industria delle costruzioni e l’assetto urbano della città. Due obiettivi più volte dichiarati che però non agiranno mai nella profondità dei rapporti di produzione. Si rimane a mezza strada cercando di ridefinire continuamente gli interventi. La produzione dello spazio costruito non è esente dal funzionamento di un più generale modo di produzione delle merci e il tentativo del partito Socialdemocratico di gestire l’intero processo solo a livello amministrativo, limitando tra l’altro la capacità conflittuale del movimento operaio viennese, va incontro a contraddizioni insanabili.

Per Tafuri ci sono anche altri importanti elementi aggiuntivi che trasformano la “Vienna rossa” in una tragica epopea. Il progetto del Partito socialdemocratico di far diventare Vienna “uno Stato nello Stato”, un territorio che doveva divenire il banco di prova della sperimentazione della “democrazia socialista”, ottiene:
un risultato politico indubbio. Isolandosi dalle campagne e dalle piccole città, Vienna circoscrive l’influenza dei ceti più retrivi e conservatori, assumendo un ruolo egemone. Ne discende un nuovo “dovere” per la città che si risveglia dopo la “seria Apocalisse” delle mitologie asburgiche. Bisognerà realizzare una Vienna rossa, a costo di negare – sulla base dell’assurdo politico ed economico imposto dalle contingenze - le funzioni specifiche della metropoli moderna [59]

Vienna, come tutte le metropoli di quel tempo, cresce su se stessa. L’intervento pubblico non prende in considerazione la necessità di una diversa organizzazione urbana, gli Hofe della Vienna rossa sono visti come i bastioni della futura Vienna (e dell’Austria) socialista. In realtà questi grandi blocchi residenziali si inseriscono nelle maglie della città esistente accettandone tutti i vincoli.[60]

La “composizione di classe” del movimento operaio viennese stava velocemente cambiando andando oltre le rivendicazioni tipiche degli operai di mestiere, con comportamenti che richiedevano forme di democrazia non ingabbiate dal mastodontico apparato burocratico del Partito socialdemocratico. La storia del Karl Marx- Hof, il più grande e noto dei blocchi residenziali per operai, da questo punto di vista è paradigmatica. Costruito nel 1927, su un progetto di Karl Ehn, diventa una “cittadella rossa”, di circa 5.000 abitanti, gelosa della propria autonomia rispetto al contesto urbano in cui è inserita. In esso vive una sorta di “utopia del semantico”:
calata nell’affermazione di un “umanesimo socialista” capace di opporsi all’annullamento della Kultur e delle tradizioni in essa incarnate. Qui veramente abbiamo “realismo socialista”; qui, veramente, il mito lukacsiano della totalità è assunto in pieno. Una mistica alto-borghese informa la più compiuta “montagna incantata” del “ rote Wien”[61]

Un blocco edilizio che resiste alla metropoli con strumenti e simboli anacronistici. Un sublime e tragico “monumento socialista”. E quando nel febbraio del 1934 la Vienna rossa cade sotto i colpi dell’esercito governativo, lo stato d’animo degli operai che hanno resistito è ben riassunto da una frase pronunciata da un operaio della Via di febbraio, il romanzo di Anna Seghers: “Non è più tutto come prima. Il Karl Marx-Hof non è rovinato, lui ce l’ha fatta. Ma la nostra fede nel partito… quella sì, si è sfasciata”.[62] Nei 14 anni di vita della Vienna rossa si è fatto il tentativo di intrecciare ai livelli più alti, e su grande scala, una riforma urbana con le vicende politiche della lotta di classe. L’esito non è stato dei migliori, anche per la natura esclusivamente riformista del Partito socialdemocratico, ma la questione tuttavia rimane aperta.

Una questione che permette a Tafuri, e in Italia a non molti altri, di riflettere sul ruolo svolto dai partiti di sinistra, in primo luogo dal Partito comunista italiano, nelle politiche urbane e nell’amministrazione di regioni e grandi città.[63] Nella sospensione di giudizio adottata Tafuri sull’azione amministrativa del PCI alla metà degli anni ’70 traspare tuttavia un’analogia che si rivelerà premonitrice:

L’esperienza storica ci può insegnare molte cose, ma non è detto che debba ripetersi. Indubbiamente nell’esperienza della Germania socialdemocratica, o della Vienna socialdemocratica, il movimento delle cooperative non serviva a far progredire le lotte, ma serviva all’illusione di “risolvere”.[64]

Nel senso che l’azione politica ed economica delle cooperative, sostenuta dai governi delle regioni e delle città, veniva considerata in termini risolutivi rispetto a un possibile cambiamento del mercato immobiliare. Un’illusione che si rivelerà tragica per lo stesso Partito Comunista Italiano che verrà sempre più assorbito dai sistemi di potere e di gestione dei governi locali ridefinendo il proprio riformismo a livelli sempre più bassi e subalterni.

7. Il progetto storico

In un’intervista del 1986 alla domanda sul ruolo della critica nello sviluppo del discorso architettonico, Tafuri risponde: “La critica non esiste, c’è solo la storia”.[65] Sembra una provocazione. L’affermazione è perentoria e molto impegnativa, ma non è una provocazione. Si fonda sulla riflessione svolta qualche anno prima in uno dei testi più importanti per confrontarsi con il pensiero di Tafuri: La sfera e il Labirinto.
la storia è […] vista come un “produrre” in tutte le articolazioni del temine. Produzione di significati, a partire dalle “tracce significanti” degli eventi, costruzione analitica mai definitiva e sempre provvisoria, strumento di decostruzione di realtà accertabili. Come tale, la storia è determinata e determinante: è determinata dalle proprie stesse tradizioni, dagli oggetti che analizza, dai metodi che adotta; determina le trasformazioni di sé e del reale che decostruisce.[66]

La storia dell’architettura non può essere ridotta ad un’ermeneutica e non ha l’obiettivo di scoprire la “verità”. Il suo compito è spezzare le barriere che essa stessa costruisce, per procedere, per andare oltre. Invece i linguaggi della critica in architettura, nelle comunità accademiche come sulle riviste specializzate, che dovrebbero “spostare e infrangere i sassi”, sono essi stessi dei “sassi”.[67] E per Tafuri non sono nemmeno convincenti le “genealogie foucaultiane” e le disseminazioni di Deridda, perché vanno incontro al pericolo di consacrare i “frammenti analizzati al microscopio come nuove unità autonome e in sé significanti”.[68] La critica di Tafuri a Foucault e Deridda è esplicita, ma non fa uso dell’argomentazione che per rimettere in piedi la storia basta spostare l’attenzione dal “testo al contesto”. Pur riconoscendo che un approccio genealogico evita ogni lineare causalità e si oppone a quelle teologie indefinite che vanno sistematicamente alla ricerca “dell’origine”. I “linguaggi critici” e dei “critici” possono decostruire opere e testi, proporre affascinanti genealogie, illuminare nodi storici occultati da letture di comodo, ma negano sistematicamente uno spazio storico. Infatti si opera costantemente una semplificazione illecita ogni volta che la “buona volontà” del critico fa esplodere la sua cattiva coscienza costruendo percorsi lineari che fanno migrare l’architettura nel linguaggio, questo nelle istituzioni e le istituzioni in una supposta universalità omnicomprensiva della storia. Il vero problema è come progettare una critica capace di mettere in crisi se stessa e la realtà dell’architettura. Un problema irrisolvibile per una critica che si è progressivamente articolata in critica del testo, critica della semantica, critica sociologica, critica delle forme e della composizione architettonica.

Solo la storia è in grado di progettare la propria crisi: il progetto storico è un “progetto di crisi”. Ma che significa fare un progetto storico come progetto di crisi? E quale storia e quale crisi? La storia dell’architettura, dice Tafuri, è il frutto di una dialettica irrisolta, in cui non c’è alcuna nostalgia per le sintesi a posteriori e in cui
L’intreccio fra anticipazioni intellettuali, modi di produzione e modi di consumo deve far “scoppiare” la sintesi contenuta nell’opera.[69]

Le opere architettoniche sono affrontate introducendo una disgregazione, una frantumazione delle loro unità costitutive.
Di tali componenti disgregate sarà necessario procedere ad un’analisi separata. Rapporti di committenza, orizzonti simbolici, ipotesi di avanguardia, strutture del linguaggio, metodi di produzione, invenzioni tecnologiche […] così denudate dall’ambiguità connaturata alla sintesi “mostrata” dall’opera.[70]

Tuttavia nessuna di tali componenti singolarmente servirà a comprendere la “totalità” dell’opera. L’atto del “critico storico” consisterà quindi in una ricomposizione dei frammenti una volta storicizzati. Ma come e in che modo? L’intreccio tra lavoro intellettuale e le condizioni della produzione dell’opera offre un valido strumento per ricomporre il “mosaico” dopo la scomposizione analitica compiuta precedentemente.

Far rientrare la storia dell’architettura nell’ambito di una storia della divisione sociale del lavoro non significa affatto regredire a un “marxismo volgare”, non significa affatto cancellare le caratteristiche dell’architettura stessa. Anzi, queste ultime andranno esaltate mediante una lettura capace di collocare – sulla base di parametri verificabili – il reale significato delle scelte progettuali nella dinamica delle trasformazioni produttive che esse mettono in moto, che esse ritardano, che esse tentano di impedire.[71]

In questa rappresentazione della storia Tafuri usa in modo evidente la categoria marxiana di astrazione determinata e risponde a modo suo - probabilmente è il solo tra i critici e gli storici dell’architettura ad averlo fatto - all’interrogativo di Benjamin sulla posizione dell’opera all’interno dei rapporti di produzione. Una risposta che presenta al proprio interno tutti gli elementi per essere messa in crisi, che richiede di essere messa in crisi. Quindi non uno spaccato storico ma un percorso a scatti all’interno di un groviglio di sentieri con tante “costruzioni provvisorie”. Uno spazio storico in cui la crisi diventa progetto di trasformazione.

Felice Mometti
La crisi come progetto
Architettura e storia in Manfredo Tafuri


Felice Mometti est un architecte et un doctorant en philosophie à Paris VIII. Il rédige une thèse sur la crise de la modernité. Il s'occupe de marxisme et d'idéologie de l'architecture et il étudie la pensée de Manfredo Tafuri, historien italien de l'architecture.

RESUME : La crise en tant que projet. Architecture et histoire dans la pensée de Manfredo Tafuri
L'histoire de l'architecture ne peut pas être réduite à une herméneutique et elle n’a pas pour but de découvrir la “vérité”. Elle a pour tâche de briser les barrières qu’elle construit elle-même, pour avancer, pour aller au-delà d’elles. Dans le même temps, il faut prendre conscience que le noyau théorique et analytique de fond est la question posée par Benjamin au sujet de la poésie et qu’il est nécessaire de poser aussi par rapport à l’architecture. En effet, il ne faut pas demander quelle position une œuvre occupe en relation aux rapports de production, si elle est en syntonie avec eux, si elle est réactionnaire, ou si elle vise à les bouleverser, si elle est révolutionnaire. Avant de demander quelle position l’architecture occupe en relation avec les rapports de production, il faut se demander quelle est sa position au sein de ces derniers. Conformément à cette représentation de l’histoire, Tafuri utilise la catégorie marxienne d’abstraction déterminée, afin de répondre à sa façon à l’interrogation de Benjamin concernant la position de l’œuvre architecturale au sein des rapports de production – et il est probablement le seul parmi les critiques et les historiens de l’architecture à l'avoir fait – . Ainsi, l’histoire de l’architecture n’est pas une histoire linéaire, mais plutôt un parcours fragmenté, un enchevêtrement de plusieurs sentiers, parsemés de beaucoup de “constructions provisoires”, un espace historique dans lequel la crise devient projet de transformation.

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[1] Tafuri 1968, p. 270.
[2] Biraghi 2005
[3] Leach 2007.
[4] Day 2005.
[5] Jameson 1988.
[6] Benjamin 1973, p. 201.
[7] Lefebvre 1973.
[8] Tafuri 1969, p. 78.
[9] Tafuri 1992.
[10] Gregotti 1995, p. 2-9.
[11] Tafuri 1992.
[12] Nella Storia dell’architettura per Movimento Moderno generalmente si intende quell’insieme di idee, teorie, esperienze e opere che ha caratterizzato il periodo che va dagli anni precedenti alla prima guerra mondiale alla fine degli anni ’30.
[13] Tafuri 1992, p. xx.
[14] Da Solà-Morales 2000, p. 56-60.
[15] Wright 2008, p. 93-120.
[16] Asor Rosa 1995, p. 28.
[17] Editoriale 1968, p. 243.
[18] Borio, Pozzi, Roggero 2002, p. 54.
[19] “Primo Bilancio” 1968, p. 237.
[20] Tafuri 1969a, p. 31-79.
[21] Tafuri 1970, p. 241-281.
[22] Tafuri 1971a, p. 207-223
[23] Tafuri 1971b, p. 259-311.
[24] Tafuri 1969a, p. 31.
[25] Tafuri 1968.
[26] Ibid. p. 241.
[27] Tafuri 1969a, p. 34-35.
[28] Ibid. p. 42.
[29] Ibid. p. 78.
[30] Tafuri 1973.
[31] Ibid. p. 6.
[32] Ibid. p. 169.
[33] Ibid. p. 57.
[34] Tronti 2006, p. 121-265.
[35] Tafuri 1973, p. 160.
[36] Tafuri 1975, p . 278.
[37] Ibid. p. 278.
[38] Tafuri 1980a, p. 10.
[39] Ibid. p. 15.
[40] Tafuri, 1970.
[41] La forma generale del potere è “alla ricerca di un diverso difficile equilibrio tra l’esigenza crescente di una centralizzazione delle decisioni e la necessità di un effettivo decentramento delle funzioni di collaborazione e di controllo: unità tendenziale di autorità e pluralismo, di direzione centrale e autonomie locali, con una dittatura politica e una democrazia economica, uno Stato autoritario e una società democratica. A questo punto, è vero, non c’è più sviluppo capitalistico senza un piano del capitale. Ma non ci può esserci piano del capitale senza capitale sociale. E’ la società capitalistica che programma da sé, il proprio sviluppo. E questa, appunto, è la pianificazione democratica.” Tronti 2006, p. 70.
[42] Tafuri 1975, p. 276 .
[43] Marx 2009, Libro primo, p. 298-299.
[44] Tafuri 1970, p. 267.
[45] Tafuri 1976, p. 5.
[46] Benjamin stabilisce una analogia tra l’esperienza dello choc del passante tra folla metropolitana e quella dell’operaio addetto alle macchine “[…] Marx mostra come, nel mestiere, la connessione dei momenti lavorativi è continua. Questa connessione, resa autonoma e oggettivata, si ripresenta nell’operaio di fabbrica nella catena di montaggio. Il pezzo da lavorare entra nel raggio d’azione dell’operaio indipendentemente dalla sua volontà; e altrettanto liberamente gli si sottrae”. Benjamin 1962, p. 110-111.
[47] Tafuri 1973, p. 78.
[48] Tafuri 1976, p. 105.
[49] Tafuri 1976, p. 107.
[50] Tafuri 1973, p. 3.
[51] Marx 1974, p. 189.
[52] Insediamenti residenziali caratterizzati da “un’architettura razionalista”, costruiti alla periferia delle città tedesche,
[53] Tafuri 1971a.
[54] Tafuri 1980b, p. 7.
[55] Adler 1908, p. 35-38.
[56] Engels 1980, p. 178.
[57] Sull’attività di architetti come Loos, Frank, Behrens, Ehn si veda Tafuri 1976.
[58] Grandi blocchi edilizi che hanno al loro interno una vasta gamma di servizi collettivi – asili, scuole, lavanderie, cucine, laboratori artigiani, spazi verdi – costruiti nella fascia intermedia e suburbana della città di Vienna.
[59] Tafuri 1980b, p. 10.
[60] Ibid. p. 28.
[61] Ibid. p. 94.
[62] Ibid. p. 140.
[63] A metà degli anni ’70 il PCI è al governo oltre che nelle città delle tradizionali regioni “rosse” (Toscana, Emilia Romagna, Umbria) anche a Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia e Napoli.
[64] Intervista a Tafuri, in “AMC Architecture-Mouvement-Continuité” 39, giugno 1976
[65] Casabella 1995, 619-620, p. 96.
[66] Tafuri 1980a, p. 5.
[67] Qui Tafuri si riferisce a Nietzsche che in Aurora allude a “parole eternizzate e dure come sassi, e ci si romperà una gamba invece di rompere una parola”.
[68] Tafuri 1980a, p. 7.
[69] Ibid. p. 20
[70] Ibid. p. 20
[71] Ibid. p. 22

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